«

»

ott 15

Un’estate con Matthew Dear

Dear Matthew,

sei un cazzo di enigma. Ecco come inizierei una lettera immaginaria ad un personaggio che per tutta l’estate mi ha attratto, respinto, poi di nuovo intrigato, spesso annoiato, ma mai lasciato indifferente. L’uscita del recente Beams (improprio sarebbe chiamarlo “nuovo” oggi, in ottobre) mi aveva persuaso ad avvicinarmi ad un autore celebratissimo ma a me quasi sconosciuto. Si era ancora in giugno quando cominciavano a circolare le nuove tracce su Soundcloud, mentre oggi viene giù che dio la manda, mi fanno male le ossa e per uscire stasera credo che ci vorrà er giacchetto; la ruota della natura ha fatto un giro intero ed io non mi sono ancora fatto un’idea chiara dello strano rapporto che mi lega al Caro Matthew. Ricordo che i primi ascolti attraverso gli speaker gracchianti di un laptop fabbricato alla Foxconn mi lasciavano indifferente: i brani sembravano indolenti loop senz’anima, piatti e scarni, di un’opprimente omogeneità. Abbandonai la pratica per noia, senza neanche connettere gli auricolari. Dopo un po’, tuttavia, pensai che era ingiusto liquidare tanto in fretta un’artista per cui la stampa di settore s’inventava ogni giorno nuovi aggettivi e allora cominciai a scavare nel suo passato, sperando di imbattermi nella classica gemma; saltando a piè pari Asa Breed, l’LP di esordio per la Ghostly International (troppo brutta quella copertina), mi lasciai tentare da una interessante raccolta di tracce microhouse prodotte dal nostro fra il 2003 e il 2007 per la Spectral Sound, intitolata Beginning of the End: The Spectral Sound Singles, e mi dissi che poteva essere un’ottima occasione per iniziare a conoscerci meglio; che poi in estate un po’ di ritmo ci stava pure bene. Quei 120Km/h toccati sulla Teramo-Mare mi sembrarono la giusta atmosfera per testare il nuovo materiale. Non l’avessi mai fatto: un minuto di Irreparably Dented bastò a trasformare l’abitacolo della mia monovolume giapponese in un’incubatrice infernale su ruote, degna di un film di Eli Roth. Ebbi paura per la mia vita e accostai per un Camogli, una sniffata di Arbre Magique o qualsiasi altra cosa che avesse potuto rimuovere il ricordo delle creature deformi che avevo sognato di investire in quel breve tratto di Highway to Hell. Un disco malato, una disco malata; decisi che volevo continuare a godermi l’estate e allora, ancora una volta, archiviai. Con l’Italia alle spalle, nel mezzo delle mie due sacrosante settimane low-cost a Berlino, pensai che avevo bisogno di un po’ di musica da riportare a casa e, rovistando in uno sgarrupato negozietto, posai gli occhi cerchiati dalle borse sulla copertina nero pece e fumo di sigaretta di Black City. Berlino è proprio una città per tutte le tasche… e fu così che Matthew D. finì nel mio smartphone Made in China but Engineered in California sotto forma di musica liquida. Da allora non ne è più uscito. Come mai? Non mi era bastata la lezione? Forse si trattò solo di testardaggine abruzzese, o di un qualche istinto masochista: quel che è certo è che con Matthew c’è voluta tanta pazienza e ora fa parte di me, che mi piaccia o no. Delizia o sevizia?

GHOSTS’N'GOBLINS

Tanto si è scritto sugli accostamenti fra l’artista totem della mia estate tormentata e il David Bowie degli anni ’80, e tanto altro ancora si potrebbe scrivere sulla corte spudorata che il caro Dear, in studio e sul palco, fa ai Talking Heads di Eno e allo stagionato Bryan Ferry. Noi, per descrivere il suo rapporto con l’ispirazione, ci faremo bastare questo: a Matthew piacciono i fantasmi. Lo dichiara lui stesso apertamente in More Surgery: “I’m in love with ghosts”. Aggiungiamo un passato di militanza nella Spectral Sound. Non vi basta? Vogliamo menzionare nuovamente l’etichetta che ha contribuito a fondare, la Ghostly International, per metterci l’anima in pace? No, dai, per carità, ascoltiamoci pure i suoi dischi: sussurri e bisbiglii, cavernosi riverberi, campioni indefinibili, motivi ectoplasmici, delay dalle code siderali, ed una voce, la sua, profonda, tetra, come una fossa. Il problema però è che i fantasmi, a loro volta, amano Matthew. Evidentemente lusingati, non lo torturano con strida e catene, bensì lo cercano per ammazzare il tempo, lo invitano a giocare nelle loro camerette ardenti, se lo portano a braccetto fino al pub per ridere e scherzare. Come si sta bene fra amici! Sembra quasi di vedere un film di Tim Burton; la stessa vena pop, il piglio ludico, la disinvoltura del freak, quella spiazzante leggerezza nell’affrontare una materia scabrosa e ripugnante. L’unica differenza è che Burton non è mai diventato adulto (e alla lunga ha rotto anche un po’ i coglioni) mentre forse Matthew D. non lo è mai stato. Classe ’79, D. sembra ossessionato dal raggiungimento di uno standard di decoro ed eleganza ed è curiosamente attratto dal pallido charme della sobrietà emanato delle grandi icone avant-pop; una caratteristica, questa, da songwriter maturo, con dischi di platino alle spalle ed in odore di collaborazioni con epigoni di Pavarotti. “Understatment” è sicuramente una parola chiave per decifrare la sua musica, che non va mai sopra il segno né cerca di vincere facili consensi. Anche quando a Black City si balla, Matthew non viene a sbatterti in faccia il fatto che in gioventù, trasferitosi dal Texas nel Michigan, iniziò a farsi un nome proprio sulla scena techno di Detroit. In generale, di rado si trova qualcosa anche di solo minimamente eccitante nei suoi dischi, il che è parecchio strano per un produttore con pedigree da dancefloor. Ma in un mondo in cui Kid A vende meglio di Ok Computer tutto è lecito, e anche scatarrare sulla fanbase può diventare una strategia vincente. C’è da chiedersi chi può permetterselo, naturalmente.

SIM SALA BEAMS

Il passaggio da Black City a Beams, in effetti, potrebbe richiedere qualche sforzo al seguace di vecchia data ma per me, che era neanche un mese che flirtavo col sound di Dear, è stato facile accettare quel gesto di libertà creativa che è il suo ultimo LP, e devo dire che, dopo essermi tanto applicato, sono riuscito a godermelo proprio nelle tracce in cui lo switch appare più palese. Mi spiego meglio: laddove Black City si presentava come un’opera gotica altamente coerente – praticamente una monografia musicale su una metropoli distopica sotto steroidi, un po’ Fritz Lang un po’ Frank Miller – Beams è composto da mille frammenti, assomiglia di più ad uno zibaldone. Dentro vi si trova il vecchio Dear in bianco e nero, che suona esattamente come, almeno voi, lo conoscete (Headcage, Ahead of Myself), spostando magari giusto un po’ l’accento sulle sue figure di riferimento – David Sylvian è il primo nome che mi salta in mente (ma come non pensare ad un Reznor di Fragile ascoltando Shake Me?); ogni tanto però fa capolino un lato della sua personalità che senza dubbio era rimasta silente, o perlomeno inespressa nei lavori precedenti. Una vena melodica, corale, timidamente gioiosa, dal sapore quasi esotico, dove trovano spazio strumenti inconsueti come la marimba e ritmi che strizzano l’occhio alla hula. Non so, ma quando ascolto brani di cui mi sono letteralmente innamorato, come Her Fantasy, Fighting is Futile, Do the Right Thing e Temptation, mi viene da pensare che il caro D. abbia voluto prendersi una vacanza da se stesso. Gli episodi “ballabili” sono più numerosi e ricordano tanto quei groove invitanti e tutt’altro che forsennati di una certa wave à la Mock & Toof (Up & Out, Earthforms), anche se lì l’impronta di David Byrne è talmente ingombrante da fiutare quasi il plagio; ma saremo gentili e parleremo di tributo. In definitiva, tutto l’album suona più vibrante e hippy rispetto agli altri, più accattivante nella sua varietà; ma soprattutto più ricco di stati d’animo e di esperienze musicali. L’immagine monolitica e monocromatica di D. si atomizza e si disperde, proprio come i “raggi” del titolo, e tutto si mischia in maniera imprevedibile, a riprodurre quella strana cosa, stampata sulla copertina, che non sai se è un autoritratto o una tavolozza pasticciata dal pittore. Vi lascio col dubbio. Sta a voi decidere se il mix è riuscito o se Beams vi suona come un’accozzaglia; ma se i nomi dei big evocati fin ora vi fanno battere il cuore più in fretta, l’ultima fatica di Matthew Dear è un disco che non può deludere. Ai vecchi fan consiglierei un ascolto ponderato, quale si deve concedere ad un artista giunto in una fase di transizione. Una cosa però mi sento di dirla: è solo con il prossimo album che D. potrebbe generare traumi veri e shock, e soltanto se certi trend emersi nell’ultimo anno verranno cavalcati; per ora, la rivoluzione che molti hanno temuto (e che io mi sentirei di appoggiare) è giunta solo a metà.

 

Leggi la versione in inglese tradotta da Cais das Palavras

.

Lascia un Commento

Il tuo indirizzo mail non sarà pubblicato!

Puoi usare i seguenti tag HTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>