Spiacente ma vero, le storie di Barzin non mi hanno mai toccato il cuore e non perchè sia fatto d’acciaio piuttosto perchè l’imbolsimento a cui mi ha assuefatto il canadese di origini iraniane ha saltato la staccionata ed è diventato pressochè opprimente. Perciò ascoltare delle bal-slow dalle pennellate confessionali, allarmate da una voce che taglia le desinenze e gongola sulle sillabe è un ascoltare che dà in acido nell’istante in cui i versi scritti vengono cantati. Spiacente, ma vero è che il memoriale su quella cameretta, da tempo al centro dei concitati palpiti arteriosi, non sia mai andato oltre la corsia di una statale che smembra la subdivision di casa sua. Fateci caso, la narrazione per tre quarti non incrocia il significato che gli occhi di una fanciulla vogliono dare, le braccia di taluni passanti che approdano allo stanziare degli umani sentimenti e che, pare strano a meno che non si viva in un atollo, invece nella vita di Barzin sembrano proprio non fare capolino. Il racconto in prima persona, il diarismo sentimentalmente murato non è simbolico tanto meno astratto, mai indugia su parole chiave tanto meno su pensieri socio spirituali. Troppa aria fritta nelle narici, troppe atmosfere farisaiche che nella premura di far centro con la freccetta attentano alla vita del malcapitato di turno che sta per uscire dalla toilette di fianco. Questi tratteggi non dipingono un cantautore [preso come dovrebbe essere semmai dallo scavo dei sentimenti, dalla comprensione dei rapporti (meta)umani, in cui le filiere dei prodotti sociali scatenano fiamme di vita] bensì scolpiscono un ragazzotto alle prese con una sgradevole forfora post adolescenziale (amore che si cerca e poi si sciupa, ritorno all’ovile e foia di lasciarlo). Non tutto è da gettare alle ortiche. Da Notes to an absent lover Barzin antepone a livelli alterni il solipsismo alla genesi di una prosa pochino più elastica e primaverile, chiamiamola così (When it falls apart, Stayed too long in this plays) spostando l’attenzione da un passato gelido (Let’s go driving, So much time to call my own); il cantato, un tempo in sync con l’uggia, stranamente si risveglia aburneo nei versi più soli che il memoriale abbia mai dissipato (Look what love has turned us). Pure il logorio sulla pedal termina nello zufolo in cui i pensieri riescono ad incamminarsi soli, raggirando certi rimandi ai Red house painters o alla old psych, pur sempre cautissimi tags pitchforkiani. To live alone in that long summer, edito da pochissimo per Monotreme, non presagisce granchè di terso all’orizzonte eppure…eppure certi intrecci (sonori sia ben chiaro, non sia mai testuali) rendono bene il senso di disagio interiore (quello pare duro a morire) che grazie al cielo in alcuni episodi reagisce verbalmente all’inedia (All summer your love burned alone/as you learned to love this world da All the while): l’emotività si focalizza su flou pieni (Without your light), tessiture contrappuntate (In the dark you can love this place) che fanno il paio con alcune sincere esperienze di Portland (Hook and Archor), dilatazione o’connoriana (Fake it ’til you make it, Stealing beauty) che plagia un agogico adagio. Barzin fa un passo avanti quando lascia che siano i nuclei delle parole ad esprimere una totalità di pancia (chiamiamola per comodità così, anche se la chiamarei attenzione alla parola usata) e non il vuoto pneumatico; quando non è la noia, bensì la meditazione e lo stimolo a dettare la linea di un cerchio allora la freccettina va dove deve andare. Sempre meglio tardi che mai.
Anno – 2014
Genere – slow core/folk
Label – Ghost Records
Tracklist
1. All The While
2. Without Your Light
3. In The Dark You Can Love This Place
4. Stealing Beauty
5. Fake It ’til You Make It
6. In The Morning
7. You Were Made For All Of This
8. Lazy Summer
9. It’s Hard To Love Blindl
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