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mar 16

Caparezza @ Palanord

a cura di Diego Amà

Se non ho perso i conti, questa è la mia terza volta di Caparezza, dopo Ferrara Sotto le Stelle e un concerto gratuito in Piazza Vittorio a Torino per le Universiadi. Sono quindi un po’ arruginito dall’esperienza caparezziana, o meglio fossilizzato ai primi tre album, anche se in realtà del primissimo ho pochi capisaldi come La Fitta Sassaiola; arrivo quindi un po’ impreparato sugli ultimi lavori, ascoltati sommariamente al venerdì, e ripassati in auto durante il tragitto Ferrara-Bologna, ma che ad un primo ascolto mi convincono e mi sorprendono come sempre.
Entro al Palanord digerendo un panino al salame, e per aiutare questo processo mi fiondo subito all’acquisto di una Guinness media che funge da caffè; dopo questo momento d’ambientamento inizio a guardarmi intorno, e scopro piacevolmente uno dei pubblici più eterogenei mai visti ai concerti: famiglie con bambini di massimo 6 anni (e magari i miei mi avessero portato a robe come queste, anziché portarmi nelle balere ad ascoltare Castellina Pasi, per cui nutro comunque un discreto rispetto), punkabbestia dal capello azzurro metallizzato e dilatatore al lobo, adolescenti alle loro prime sbronze, filoquarantenni attempati che sfidano il freddo entrando in t-shirt e pantalone corto. Decido quindi di piazzarmi tra un presunto seguace di Fabri Fibra dal capello rasato, orecchino importante e collanazza di spessore al collo, accompagnato da una ragazza che stringerà per tutto il concerto (e non lo biasimo), e dall’altra parte un distinto signore con camicia e maglioncino, dal sorriso perenne che sembrava si fosse fumato metà Amsterdam, il quale accompagna la figlia apparecchiata da una spazzacamini appassionata di Arancia Meccanica. Le luci si spengono attorno alle 21:45, e dopo una breve sigla introduttiva sul ledwall posto in fondo al palco, entrano i musicanti e lo stregone, all’anagrafe Michele Salvemini, in arte Caparezza. I suoi non possono essere classificati riduttivamente come semplici concerti, ma come veri e propri spettacoli: tra un brano e l’altro, c’è sempre un po’ di cabaret, una scenetta, un cambio d’abito, l’ingresso di elementi scenici che impreziosiscono e contestualizzano i pezzi di Capa: un totem per La Fine Di Gaia, intermezzi dialogici con le videoproiezioni e oggetti casalinghi per House Credibilty, un pupazzone caparezziano per Iodellavitanonhocapitouncazzo, astronave gonfiabile ed abbigliamento cosmonautico per Io Vengo Dalla Luna (da segnalare anche i vestiti da “dito medio” durante Il Dito Medio Di Galileo). È un Caparezza che come sempre fa ballare, divertire e contemporaneamente riflettere, è puntiglioso e sagace più nei suoi testi che durante le scenette di cabaret, dove non si addentra in particolari sermoni o critiche. Arriva un primo omaggio a Dalla con la sigla di “Lunedì Cinema” appena prima di iniziare Kevin Spacey che trascina il pubblico nei primi poghi e io ne approfitto per strusciarmi un po’ contro la ragazza del sosia di Fabri Fibra, mentre il nostro composto padre di famiglia estrae una macchinetta digitale primordiale e scatta alcune foto per la figlia. È un pubblico molto preparato quello del PalaNord, più sulle canzoni dell’ultimo album ovviamente, ma non disdegna di cantare a squarciagola anche pezzi come le già citate Io Vengo Dalla Luna e Iodellavitanonhocapitouncazzo, La Mia Parte Intollerante, e un’inaspettata Dagli All’untore. Un saluto agli amici del No Tav e poi un Caparezza giustamente serio in Eroe, che suggella uno dei momenti più toccanti del concerto. Altro momento davvero sentito sia da Capa che dalla sua band, nonché ovviamente da tutto il pubblico è Vieni A Ballare In Puglia, un pezzo che riesce a far muovere la testa e a far sobbalzare un po’ il nostro caro genitore composto ancora accanto a me, mentre pochi metri più a destra si scatena un pogo d’esagitati; un pezzo che mi colpisce questo, perché lo si sente particolarmente proprio, è la canzone che ognuno vorrebbe aver scritto per la propria regione, per valorizzare le proprie radici, per contestualizzare la propria appartenenza, e Caparezza riesce ad evocare queste emozioni con una performance non indifferente, supportato dal bravo Diego Perrone che lo affianca magistralmente ormai da anni nella seconda voce. L’eclettismo di Caparezza ci porta ad ondeggiare al ritmo reggae di Legalize The Premier, si continua a sorridere con Cacca Dallo Spazio, e si torna a riflettere con Ci Sono Cose Che Non Capisco con un simpatico intermezzo-parodia di Chi Vuol Esser Milionario che ovviamente qua diventa Chi Vuol Esser Lasciato In Pace, dove si scherza con il nome del tastierista della band. Il concerto si chiude dopo quasi due ore con il brano composto da Capa iniseme ai Rezophonic Nell’acqua, a sugellare un concerto-spettacolo-manifesto davvero eccezionale, una sorta di insegnamento di vita, di apertura mentale su ciò che succede attorno a noi, a suon di rock e rap, e che apre uno spunto di riflessione sul futuro col sorriso sulla bocca. Caparezza saluta tutti dicendo “Ciao Bologna, città di grandi artisti”, e mentre si riaccendono le luci entra la schitarrata acustica e poco dopo il fischiettino di Lucio Dalla: me la canto tutta questa Com’è Profondo Il Mare, la chiusura davvero perfetta per un concerto come questo. Ho perso ormai di vista sia la ragazza del clone di Fabri Fibra, sia il genitore con figlia pseudo-emo; mi dirigo all’esterno del Palanord e aspetto un passaggio per il Covo. Ci si vede alla prossima Capa…

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