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apr 14

EMA – The Future’s Void

EMA-Futures-Void-cover-300x300Dopo la breve esperienza nella band dei Gowns, insieme a Ezra Buchla, Erika M. Anderson, in arte EMA, ci aveva regalato uno dei debutti più sensazionali degli ultimi anni: Past Life Martyred Saints (2011) arrivava come uno schiaffo in faccia ed era palpitante di autobiografismo e dolore (in Marked faceva riferimento ai tagli autoinferti sulle sue braccia) su sonorità grunge, rock e stranianti. A tre anni di distanza e sempre col fido produttore Leif Shackleford, la Anderson pubblica il suo secondo difficile album, The Future’s Void. Concepito inizialmente come una riflessione sul ruolo che le tecnologie hanno sulla vita umana, l’album finisce con l’abbracciare diversi temi e offre numerosissimi spunti di riflessione. Non si tratta, come nel caso del precedente, di un ascolto facile: le strutture musicali sono sovraccariche, arzigogolate, spezzate, ricomposte, sebbene questa volta ci sia un larghissimo uso di elettronica e deviazioni più noisey rispetto al debutto.
Forse c’è troppa carne al fuoco e tra i diversi brani, soprattutto nella parte centrale, Ema si perde un po’, ma The Future’s Void è un album più che convincente, angusto, tremendamente umano anche quando i suoni si fanno sintetici e industrial, come nell’apertura di Satellites, a metà strada tra i Nine Inch Nails e Zola Jesus: noise e percussioni accompagnano una voce filtrata in un incubo fantascientifico, che potrebbe fare perfettamente da colonna sonora a un romanzo di Philip Dick. Evidente influenza è quella di Courtney Love e delle sue Hole in due delle migliori tracce di TFV: l’urlo grunge dell’ironica ballata californiana So Blonde, una cavalcata pop rock che sembra uscita da Celebrity Skin, così come la dolente e splendida When She Comes, che si apre acustica prima dell’intervento di una chitarra elettrica, ma rimanendo sempre sospesa e intimista. L’aperta confessione ritorna nella sofferta 3Jane, che si regge su un pianoforte e tastiere mentre l’artista riflette sulle contraddizioni tra l’apparenza e il proprio sentire: It left a hole so big inside of me/And I get terrified that /I will never get it back to me/I guess it’s just a modern disease. È il momento più personale dell’album, una riflessione amara e spaventata su ciò che gli altri possano percepire (And I don’t recognize/The person that I feel inside). Chtulu è frammentata e rabbiosa: sintetizzatori accompagnano chitarre elettriche e distorsioni vocali per aprirsi a un gothic blues elettronico alla Chelsea Wolfe, così come la lynchiana Smoulder, allucinata e ostica. Neuromancer, il cui titolo guarda al romanzo di William Gibson, si regge su percussioni tribali alla M.I.A. inacidite da suoni sintetici e un’interpretazione artificiale stridente. A questo punto la Anderson decide di rivoluzionare tutto: prima con When She Comes e poi con la scheletrica ballata al pianoforte e viola 100 Years, sospesa nello spazio e atemporale, che richiama le atmosfere di Gravity, un volteggiare continuo in un’altra dimensione. Con Solace tornano prepotenti le tastiere ma scorre via senza particolari sussulti se non per l’affollarsi e accavallarsi finali di voci. La conclusiva Dead Celebrity gioca con l’organo e i fireworks che sarcasticamente accompagnano frasi profonde come “We just wanted something timeless/In this world so full of speed”.
The Future’s Void è un viaggio coraggioso, complesso e doloroso nell’animo e nella mente di uno dei talenti più puri di questi anni Duemila: meno personale dell’esordio e meno easy listening, si tratta, comunque, di un’ottima conferma e di uno spunto di riflessione importante su molte tematiche. E, al giorno d’oggi, sono pochi gli artisti a sollevare interessanti punti di domanda.

Label: City Slang
Anno: 2014
Genere: Noise Rock

Tracklist

01 – Satellites
02 – So Blonde
03 – 3Jane
04 – Cthulu
05 – Smoulder
06 – Neuromancer
07 – When She Comes
08 – 100 Years
09 – Solace
10 – Dead Celebrity

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