Ormai i Joy Division li senti pure quando vai al supermercato a fare la spesa. L’ha detto Charlie, e se lo dice lui c’è da fidarsi. Perché a lui dei Baustelle non gliene frega assolutamente niente, Charlie non fa surf. Ed oggi non lo fa nemmeno Faris, nonostante avessimo immaginato chissà quali mirabili evoluzioni aerobiche dopo averli visti un paio di annetti fa. Sempre qui, sempre con Galla, sempre al Circolo, con Faris che si portava appresso il microfono per buona parte della sala urlando sulle note di Jack the Ripper; oppure che si appendeva alle travi del soffitto della Strana Casa degli Horrors, come in (una) scimmia; o che si lanciava sul pubblico in delirio senza preavviso di chiamata.
No. Stasera non ci sta niente di tutto questo. Non c’è Jack the Ripper, non c’è la trave verticale sul soffitto, non c’è il surf. Ci stanno i Gliss però, che i più fortunati ed attenti avranno incontrato nelle puntate precedenti, quando un altro paio di annetti fa spuntarono al Qube insieme agli Editors. Si vede che gli piace la compagnia post punk. Sembra si siano raveonettizzati molto rispetto a prima (e non solo perché Cecilia è divina), e continuano a meravigliare molto nel loro live. Si, sono un Devotion Implosion dei Gliss, e non da adesso (controllare Kick in your hearts autografato nella mia discografia e mi sospetterete per favoreggiamento).
Ci sta però un boato fragoroso appena gli Horrors scaldano i motori e ci incendiano con i loro Primary Colours. E tutto la prima parte del concerto di stasera sarà basata sul secondo lavoro uscito quest’anno per la XL Recordings. A Strange House dedicheranno solo un paio di pezzi durante il bis, la devastante Sheena is a parassite e Count in Fives. Hanno molti attributi per fare una scelta del genere. Primary Colours sposta il baricentro del gruppo verso il post punk del più famoso gruppo di Manchester della end of the century di ramonesiana memoria. Dai suoni, alla predominanza assoluta del basso di Rhys Webb (una volta Spider Webb, e per gli amici di vecchia data come me e Galla sempre Gatto. Non ce la fai, i calabresi hanno la memoria lunga come gli elefanti), alle scelte stilstiche fino ad arrivare ai testi ed addirittura ai titoli: come si fa a non leggere in Three Decades una versione cubica e steroidale aggiornata al terzo millenio della Decade di Closer? La sala diventa un frullatore e ne usciamo abbastanza storditi: forget you regrets e passa avanti allo step successivo. In cui predominano sempre i colori scuri e pesanti, devastati e malati, trascinati dal synth di Thomety Furse (che si alterna con Gatto sulla tavolozza rettangolare di suoni). E come non pensare a Curtis & soci quando scopri che c’è un pezzo che si chiama New Ice Age, la cui nevrosi contagia la sala come una mutazione aggressiva di Ebola? Altro che H1N1, gli Horrors sono più tossici e nocivi, anche perché hanno un immaginario orrorifico che fa spavento: stiamo sempre citofonando a casa Misfits, ma non risponde mai nessuno, forse sono andati a comprare le sigarette, gli lasciamo uno stuzzicadenti inflizato nelle pupille. Il climax è naturalmente Who Can say, cantata a squarciagola (almeno nella prima strofa) da buona parte del pubblico. Elettrificante nel suo incedere, con una pausa di giusto pathos che non scade nel patetico. Sempre il synth a sorregere fino a quando non esplode la chitarra di Joshua Third (non glielo dite a Bono però). Più compassato del live precedente, ma capace di dare il colpo di grazia finale.
La sensazione che può succedere qualcosa di magico. Stranamente avviene quando i ritmi si abbassano, cosa che nell’album nuovo succede molto più spesso del precedente. Una delirante cover di Ghost Rider dei Suicide, straziata sull’imbocco di via grand guignol. Ma sempre un ritmo compassato, lento quasi a stordire di potenza più che di velcoità. Forse merito della compagnia che Geoff Barrow ha fatto ai cinque di Southend durante la produzione del nuovo album. Ed i risultati sono tutt’altro che spiacevoli: I Only Think Of You cattura l’attenzione del gregge venuto ad ascoltare la messa di Faris, con la chitarra che sembra un violino dark. E la fenomenale Sea Whitin a Sea: viaggia su rotaie regolari, ad una velocità costante di crociera garantita dalla batteria di Joseph Spurgeon. La regolarità inquieta, specie a gestirla sono 5 fantastici malati mentali. E così dopo una breve speziatura orientale, da uno specchio in frantumi si precipita nel delirante mondo degli Horrros. Faris ci attende per farci da guida. Usciamo da una rocciosa cava montuosa e davanti a noi ecco un cielo plumbeo riflettere un nero territorio brulicante di orrore e distruzione post atomica. Faris, prima di farci accomodare, ci guarda dall’alto del suo metro ed ottanta di altezza e se la ride. The path we share is one of danger and fear until the end. Ma almeno per un po’, prima della fine, noi siamo in ottima compagnia.
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