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mar 16

OneRepublic – Native

a cura di Marco Valchera

Ogni volta che i OneRepublic pubblicano un nuovo album, scatta in me il gioco di rintracciare somiglianze con brani di altri autori, che, in alcuni casi, si spingono al limite del plagio. Questo, purtroppo, accade anche con il loro terzo lavoro, Native: le nuove melodie intessute dal leader Ryan Tedder, noto produttore di dive quali Beyoncé, Kelly Clarkson, Leona Lewis, si presentano già sentite, deboli, troppo mainstream, un difetto che l’anno scorso ha riguardato anche l’ultimo album dei Maroon 5, Overexposed. Dopo il grandissimo successo di Apologize con il featuring del produttore hip hop Timbaland, e un esordio, Dreaming Out Loud (2007), ricco di ballate rock alla U2 o Snow Patrol, il successivo Waking Up (2009) coniugava pop da classifica (Good Life ne è un esempio perfetto) con arrangiamenti orchestrali interessanti, a volte eccessivi e barocchi, producendo, finora, il loro risultato migliore. Native, al contrario, è meno ispirato: si coglie l’impressione che la band di Colorado Springs abbia voluto abbracciare ogni forma di pop degli ultimi mesi, anche le meno ispirate, riunendole in un calderone, retto solo dalle belle interpretazioni di Tedder. Ciò che si ascolta per un’ora è puro mestiere: di sentimenti genuini ve ne sono pochi, e anche i brani più posati, in cui la band eccelleva, risultano falsi, scontati, di “plastica”. Descritto come un’evoluzione della loro musica, bisogna solamente sperare che i OneRepublic intraprendano una nuova strada e non proseguano questa, fatta di strumentazioni allegre e ricche di sintetizzatori, sulla scia degli ultimi Coldplay del tremendo Mylo Xyloto (2011).
Si parte con Counting Stars, motivetto leggerino che rivela dopo poche iniziali note che ci troviamo di fronte ad un riadattamento di Drive By dei Train, già di per sé imbarazzante, arricchito, si fa per dire, da un bridge sconnesso con il resto della composizione. Si prosegue con i due singoli estratti fino a questo momento: If I Lose Myself, giocata sui sintetizzatori sull’esempio di Human dei The Killers, è la classica canzone che potrebbe scalare le charts senza infamia e senza lode, mentre Feel Again è una scopiazzatura malriuscita di Dog Days Are Over di Florence + The Machine, coniugata con il loro uso classico della batteria, ma ha dalla sua un chorus immediato, che la solleva dal piattume che seguirà nella tracklist. What You Wanted è un miscuglio di suoni anni Ottanta e sintetizzatori in una pseudo ballata scialba e ripetitiva; I Lived, quasi convincente nelle strofe, si macchia con un bridge che è palesemente ripreso da Chris Martin, mostrando, per l’ennesima volta, poca creatività e molta faccia tosta. Dopo il breve barlume costituito da Light It Up, primo brano di Native in cui facciano capolino chitarre rock, e la tipica ballata al pianoforte e cello Au Revoir, sullo stile del loro precedente lavoro, separate dall’insulsa Can’t Stop, che sembra una demo che Tedder avrebbe dato alla Lewis e che lei avrebbe, sicuramente, rifiutato, il finale ci riserva veramente delle brutte sorprese. Burning Bridges è un auto plagio: sembra di ascoltare una nuova versione peggiorata del loro ultimo successo, Good Life. Something I Need è inascoltabile, tanto che ci si chiede come sia possibile che ci siano voluti più di tre anni per produrre un brano così scontato nelle liriche e negli arrangiamenti. Preacher, dopo un’intro di archi, è la classica ballata alla OneRepublic, sognante e romantica, con Tedder che fa il suo compitino vocale, accompagnato da un coro gospel col tentativo di rendere più soul il tutto. Ma di soul, di anima, c’è poco, anche nella brevissima e conclusiva Don’t Look Down.
Paradossalmente nella deluxe edition di Native si trovano due brani piacevoli, quali Something’s Gotta Give, in cui c’è un sapiente uso dell’elettronica, e la più tradizionale Life In Color, nella campagna pubblicitaria di Ralph Lauren, che ci aveva fatto sperare, alcuni mesi fa, per un buon album. In più sono presenti versioni acustiche di tre brani presenti nella standard che rivelano, se ce ne fosse il bisogno, quale sia la strada che i OneRepublic dovrebbero intraprendere.

Label: Interscope
Anno: 2013

Tracklist

01 – Counting Stars
02 – If I Lose Myself
03 – Feel Again
04 – What You Wanted
05 – I Lived
06 – Light It Up
07 – Can’t Stop
08 – Au Revoir
09 – Burning Bridges
10 – Something I Need
11 – Preacher
12 – Don’t Look Down
13 – Something’s Gotta Give
14 – Life In Color
15 – If I Lose Myself (Acoustic)
16 – What You Wanted (Acoustic)
17 – Burning Bridges (Acoustic)

5 comments

  1. Matte

    del tremendo mylo xyloto?…scopiazzature?…sparati amico, questo album è una cosa pazzesca.

    1. Massimo

      Alcune cose le condivido, ma non puoi venirmi a dire che Mylo Xyloto è tremendo. Sicuramente più commerciale rispetto agli altri 4 album dei Coldplay, ma ugualmente emozionante. Per quanto riguarda i OneRepublic condivido a metà. E’ vero il sound e le melodie sono spesso ripetitive, tipo Burning Bridges, ma l’album nel complesso non è così male. Comunque da come ne parli sembra che il genere che non ti piaccia molto, pop rock, in quanto Drive By dei Train la trovo stupenda.

  2. Seth Cohen

    Ma chi scrive queste recensioni di merda? datemi retta, licenziatelo ;-)

  3. Sapessi

    va beh se Native è al limite del plagio…. hai qualche problema. Mylo Xyloto non è per niente tremendo anzi, quest due album sono i migliori che ho ascoltato ultimamente anche se non sono nuovi… licenziati ahahah

  4. Monica

    Scusami, ma ho letto questo pezzo di carta straccia solo ora… premettendo che quelle che scrivi sembrano solo tue opinioni e non fai che sparare a zero su tutto (dal testo traspare solo: “quest’album a me non piace!”)… ma, se non ti piace il pop, perché quello che fanno è POP, perché non te ne vai ad ascoltare e recensire qualcos’altro? Qualcosa più nelle tue corde, magari ;) Pace

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